«Alla luce di quanto affermato dalla Corte di Giustizia, la regola generale è che, in presenza di una pratica commerciale scorretta, la competenza è dell’AGCM. La competenza delle altre autorità di settore è residuale e ricorre soltanto quando la disciplina di settore regoli «aspetti specifici» delle pratiche che rendono le due discipline incompatibili.
L’espressione «aspetti specifici» della pratica commerciale scorretta impone un confronto non tra interi settori o tra fattispecie concrete, ma tra singole norme generali e di settore, con applicazione di queste ultime soltanto qualora esse contengano profili di disciplina incompatibili e antinomici con quelle generali di disciplina delle pratiche commerciali scorrette.
L’applicazione del criterio autonomo dell’incompatibilità esclude in modo chiaro che l’Autorità di settore possa intervenire. Se, pertanto, venisse irrogata una seconda sanzione, essa sarebbe illegittima, sia sotto il profilo procedimentale sia sotto quello sostanziale».
Articoli Correlati: riparto competenze - pratiche commerciali scorrette - Antitrust -
1. Le questioni sottese al caso in esame - 2. La vicenda - 3.Tutela del consumatore e mercati regolati: il nodo del riparto di competenze tra Autorità amministrative indipendenti - 4. La decisione del Consiglio di Stato - 5. Considerazioni conclusive - NOTE
L’annoso problema del riparto di competenze tra Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e Autorità di settore, in materia di repressione delle pratiche commerciali scorrette nei mercati regolati, non sembra aver trovato ancora un approdo definitivo [1]. La recente pronuncia del Consiglio di Stato che qui si commenta, resa all’esito del rinvio pregiudiziale sulla medesima fattispecie alla Corte di Giustizia, stabilisce che il rapporto tra normativa generale in materie di pratiche commerciali scorrette e disciplina settoriale a tutela dell’utente deve essere definito non tanto alla luce del principio di specialità (come già prospettato in altre occasioni dal giudice amministrativo) bensì ricorrendo al criterio autonomo di incompatibilità, il quale impone di operare un confronto tra singole norme generali e di settore, con applicazione di queste ultime solamente laddove le medesime contengano profili di disciplina «incompatibili e antinomici» con le norme di cui al codice del consumo. Spetta, dunque, all’Autorità Antitrust la competenza generale a sanzionare pratiche commerciali scorrette poste in essere da operatori economici, residuando la competenza dell’Autorità di settore nei casi in cui la disciplina di settore regoli «aspetti specifici» di dette pratiche, idonei a rendere le due discipline tra loro inconciliabili. Il punto di arrivo su questo profilo era stato individuato, da ultimo, dalla decisione dell’Adunanza plenaria del 2016, che aveva risolto il conflitto di competenze alla luce del principio di «assorbimento o consunzione» [2]. Appena qualche mese più tardi, tuttavia, sono intervenute sia la Commissione europea sia la Corte di Giustizia a riaccendere il dibattito sulla questione [3]. La soluzione delineata dal Consiglio di Stato, pur chiudendo concretamente l’intricata vicenda oggetto di contenzioso (sulla quale si sono pronunciati, rispettivamente, TAR, Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, Corte di Giustizia ed, infine, nuovamente Consiglio di Stato), dimostra ancora una volta la difficoltà del giudice amministrativo a fornire coordinate ermeneutiche veramente risolutive di uno snodo problematico che affatica da oltre un decennio il nostro ordinamento, ponendo interrogativi sulla stessa disciplina [continua ..]
A seguito di istruttoria avviata ai sensi dell’art. 27, comma 3, d.lgs. n. 206/2005, l’autorità AGCM irrogava ad una società telefonica la sanzione pecuniaria di euro 250.000, per aver quest’ultima posto in essere una pratica commerciale scorretta (nella specie «aggressiva»), ai sensi degli artt. 20, 24, 25 e 26, lett. f), del Codice del Consumo [4]. La condotta contestata consisteva nell’avere l’operatore economico attivato servizi di navigazione internet e di segreteria telefonica sulle carte Subscriver Identity Module (modulo d’identità dell’abbonato, d’ora in poi SIM) commercializzate nei punti vendita, senza aver previamente, ed adeguatamente, informato il consumatore dell’esistenza della preimpostazione di tali servizi, così esponendolo ad eventuali addebiti inconsapevoli connessi alla navigazione internet e al servizio di segreteria telefonica. Avverso detto provvedimento sanzionatorio la società proponeva ricorso avanti al TAR Lazio, eccependo il difetto assoluto di competenza dell’Autorità Antitrust. I giudici di prime cure, in adesione ai chiarimenti resi dall’Adunanza Plenaria del 2012 [5], accoglievano il ricorso, risolvendo il conflitto di competenza a favore dell’Agcom e decretando la conseguente esclusione dell’applicazione delle norme generali del Codice del Consumo alla condotta in esame, sull’assunto per cui è l’Agcom l’autorità preposta alla cura e alla salvaguardia dell’interesse pubblico primario della tutela del consumatore nel settore delle comunicazioni elettroniche [6]. A seguito del ricorso in appello formulato dall’Autorità Antitrust, il Consiglio di Stato, in ragione della incertezza sulla interpretazione della normativa applicabile, suscettibile di portare a soluzioni differenti per la presenza nei due plessi normativi di riferimento (quello del codice del consumo e quello del codice delle comunicazioni elettroniche) di norme di divieto e di sanzioni di pratiche commerciali scorrette riferibili ai medesimi soggetti (in veste di operatori economici e di consumatori finali), sospendeva il giudizio, rimettendo la questione interpretativa all’Adunanza plenaria ai sensi dell’art. 99 c.p.a. [7]. Con sentenza del 9 [continua ..]
A seguito del recepimento sul piano interno della direttiva 2005/29/CE, diretta ad uniformare le legislazioni nazionali degli Stati membri poste a protezione dei consumatori, con precipuo riferimento alle pratiche «sleali» esercitate dalle imprese, il legislatore italiano ha dotato il nostro ordinamento di strumenti di public enforcement a tutela del consumatore, affiancandoli alle forme di protezione, di natura privatistica, già esistenti [11]. L’art. 27 del codice del consumo individua (disciplinandone poteri, procedimento e sanzioni) quale autorità preposta ad applicare la disciplina in materia di pratiche commerciali scorrette l’AGCM, la cui competenza – in ragione del carattere di trasversalità che la caratterizza – si radica ogni qual volta si configuri un comportamento costituente pratica commerciale scorretta, a prescindere dall’ambito e dal settore (che può, ed anzi, solitamente è, governato da una normativa specifica e settoriale) in cui detto comportamento si verifica. La coesistenza di una normativa generale (di cui al codice del consumo) a tutela del consumatore e di discipline settoriali, di derivazione europea, poste in essere da Autorità di regolazione a tutela (anche) dell’utente, ha imposto la necessità di individuare criteri interpretativi idonei a prevenire il rischio di sovrapposizione di competenze tra Autorità trasversale ed Autorità settoriali, nonché a scongiurare il possibile configurarsi di violazioni del divieto di bis in idem. Nel tentativo di elaborare una soluzione, la giurisprudenza amministrativa ha cercato in più occasioni di fornire un’interpretazione dell’art. 19, comma 3, del codice di consumo, il quale sancisce che «in caso di contrasto, le disposizioni contenute in direttive o in altre disposizioni comunitarie e nelle relative norme nazionali di recepimento che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette prevalgono sulle disposizioni del presente titolo e si applicano a tali aspetti specifici» [12]. Le soluzioni delineate dai giudici si sono spinte ora a favore di un principio di specialità per settori (idoneo a radicare la competenza dell’Autorità di settore in presenza di una regolazione piena ed in grado di tutelare efficacemente il contraente c.d. debole) [13], ora a [continua ..]
All’esito dei chiarimenti resi dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 13 settembre 2018, il Consiglio di Stato ha riformato la pronuncia di primo grado nei termini che seguono. L’impianto argomentativo della sentenza si sviluppa attraverso un ragionamento a struttura piramidale discendente, teso ad analizzare tre profili. Il primo, e principale, fa leva sull’analisi della disciplina generale e settoriale in tema di pratiche commerciali scorrette. Il secondo si incentra sulla disamina della fattispecie concreta. Il terzo, infine, attiene al divieto di bis in idem. Con riferimento al primo profilo, il giudice di secondo grado procede preliminarmente alla ricostruzione del quadro normativo complessivo, al fine di verificare, rispettivamente nella normativa generale ed in quella settoriale, l’interesse pubblico perseguito, le condotte individuate, l’apparato sanzionatorio previsto. In particolare, dopo aver rilevato la diversa ratio sottesa alle due discipline esaminate – l’una, posta specificamente a protezione del consumatore in forza dello squilibrio informativo intercorrente tra quest’ultimo nel rapporto con il professionista; l’altra, funzionale a tutelare sia il mercato nella sua interezza, sia le parti deboli che, in quanto tali, si possono trovare in una situazione di asimmetria informativa rispetto agli operatori economici – il giudice sottolinea come entrambe le discipline prevedano in capo al professionista regole di condotta che costituiscono attuazione, in un caso (ed in particolare, nella disciplina generale) del concetto di correttezza professionale e, nell’altro (nello specifico, nella disciplina settoriale), di doveri di informazione declinati dal principio di buona fede oggettiva. Si tratta, tuttavia, di regole di condotta che si basano su «un livello di precisione non elevato», la cui effettiva tipizzazione viene rimandata ad una fase successiva in capo alle Autorità amministrative indipendenti. Venendo ad esaminare l’apparato sanzionatorio, occorre considerare come sia il codice del consumo sia il codice delle comunicazioni elettroniche attribuiscano alle autorità di competenza il potere di irrogare sanzioni pecuniarie, aventi valenza «afflittiva», e dunque assoggettate ai principi di legalità costituzionale e convenzionale [23]. Ricostruito il quadro complessivo in materia, [continua ..]
Con una pronuncia da tempo attesa, il Consiglio di Stato è tornato a riflettere sull’interpretazione da riconoscere all’art. 19, comma 3, del codice del consumo, rinfocolando un dibattito che non accenna a trovare uno sbocco definitivo. In assenza di un chiaro riferimento normativo in materia, il giudice amministrativo si è visto costretto in diverse occasioni ad intervenire sul tema del riparto di competenze tra Autorità amministrative indipendenti in materia di pratiche commerciali scorrette, nel tentativo di elaborare criteri ermeneutici idonei a superare le ambiguità sottese alla disciplina, di matrice europea, posta a tutela del c.d. soggetto debole. Le principali difficoltà riscontrate dagli interpreti paiono, per il vero, direttamente connesse alle peculiarità del sistema europeo, caratterizzato da una certa “lentezza” ad intercettare le esigenze dei cittadini, nonché ad intervenire sulle problematiche esistenti con strumenti idonei ed efficaci. La differente velocità con cui da sempre si muovono, da un lato, l’ordinamento giuridico (europeo) e, dall’altro, i bisogni della società, hanno dato luogo, nel corso del tempo, ad una moltiplicazione di regole – prodotte in tempi diversi e da soggetti diversi – capaci di determinare situazioni di contrapposizione e contrasto fra discipline differenti. La stessa Commissione europea, in una comunicazione del 2018, ha auspicato la realizzazione di un «New Deal» per i consumatori, in grado di garantire un mercato unico equo per i soggetti che vi operano, attraverso «una migliore applicazione delle norme, strumenti efficaci di ricorso e una migliore conoscenza dei diritti dei consumatori» [28]. Nel caso delle pratiche commerciali «sleali», la situazione è complicata dal fatto che la disciplina, posta a livello europeo a tutela del consumatore, affida al legislatore nazionale il compito di individuare l’autorità competente, stante il principio di indifferenza dell’Unione europea rispetto all’organizzazione interna del singolo Stato membro. Nell’intento di addivenire alla definizione di un sistema capace di intercettare i comportamenti scorretti posti in essere dagli operatori economici, e funzionale a soddisfare il bisogno di tutela del c.d. soggetto debole – ritenuto [continua ..]