CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 3 SETTEMBRE 2019, N. 9
«(…) Hanno natura provvedimentale soltanto gli atti con cui il GSE accerta il mancato assolvimento, da parte degli importatori o produttori di energia da fonte non rinnovabile, dell’obbligo di cui all’art.11 d.lgs. n. 79/99. Salvo il legittimo esercizio, ricorrendone i presupposti, dell’autotutela amministrativa, tali atti diventano pertanto definitivi ove non impugnati nei termini decadenziali di legge. Deve invece riconnettersi natura non provvedimentale agli atti con cui il GSE accerta in positivo l’avvenuto puntuale adempimento del suddetto obbligo da parte degli operatori economici di settore (…)».
Keywords: Energy Service Provider – Green Certificates – Mandatory Quotas – Notes of Assessment – Mere Assessment – Discretionary Assessment – Dual Nature – Private Exercise of Public Functions – Non-Discretionary Activities – Exclusive Jurisdiction of Administrative Judge
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1. Genesi della controversia - 2. Il quesito di diritto individuato dall’ordinanza di rimessione - 3. Le considerazioni dell’Adunanza plenaria e la soluzione “mediana” adottata - 4. Punti di partenza, punti d’arrivo e intrecci del costrutto motivazionale - 5. Riferimenti (non conclusivi) alle teorie dell’accertamento amministrativo - 5.Ipotesi riordinatrici della ratio decidendi - NOTE
La questione affrontata dalla formazione plenaria del Consiglio di Stato, chiamata a decidere della natura giuridica delle note con le quali il Gestore dei Servizi Energetici accerta l’adempimento o meno degli obblighi d’acquisto dei certificati verdi incombenti su produttori e importatori di energia elettrica [1], ha avuto origine da una precedente vertenza sorta fra l’Enel e l’Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas (oggi ARERA). Lo stesso punto di diritto, tuttavia, interessa altri giudizi pendenti innanzi al Supremo Consesso e, alla luce della soluzione adottata, pare destinato ad avere strascichi futuri consistenti, benché il meccanismo d’incentivazione cui si riferisce sia stato ormai superato [2]. La pretesa dell’Enel si fondava su una decisione del TAR Lombardia [3], con cui era stata annullata una delibera dell’AEEG [4] relativa al rimborso degli oneri sostenuti dai titolari di impianti di produzione di energia non rinnovabile per l’acquisto di certificati verdi nelle annualità 2001 e 2002. La base di calcolo che l’Enel aveva contestato in quella sede era la stessa cui si faceva riferimento per il computo degli obblighi d’acquisto e la questione controversa riguardava l’individuazione delle quote di energia rilevanti, laddove l’autorità considerava solo quella prodotta e immessa sul mercato, ed escludeva invece quella utilizzata per il funzionamento degli impianti di pompaggio volontario, che è pacificamente superiore (di circa un terzo) a quella prodotta [5]. Alla luce di tale decisione, innanzi all’inerzia del GSE, nel 2010 l’Enel agiva per l’ottemperanza, richiedendo la ripetizione di quanto indebitamente versato, pretendendo però di estendere l’obbligo di restituzione anche alle produzioni successive al 2003, laddove era effettivamente stata applicata la medesima base di calcolo. Il Giudice dell’ottemperanza provvedeva in relazione alla pretesa vantata per gli anni 2001 e 2002, mentre dichiarava l’inammissibilità del ricorso per gli anni compresi tra il 2003 e il 2008, ritenendo che la pretesa restitutoria azionabile in quella fase dovesse essere limitata all’oggetto della decisione di cui si chiedeva esecuzione [6]. La decisione veniva appellata e confermata dal Consiglio di Stato [7], che circoscriveva l’ambito [continua ..]
Contro tale pronuncia l’Enel proponeva quindi nuovamente appello, deducendo la mancanza di un fondamento legislativo o, comunque, di una base normativa anche di rango secondario, al potere provvedimentale invece riconosciuto in capo al GSE da parte del Giudice di primo grado. In considerazione della particolarità della fattispecie controversa e della rilevanza della questione di diritto sottesa all’oggetto del giudizio [11], la sezione IV decideva di deferire la questione all’Adunanza plenaria [12]. Il giudice a quo recepiva quindi integralmente la ricostruzione del quadro legislativo operata dal TAR Lazio, che aveva ritenuto che la normativa individuasse un procedimento amministrativo strutturato in funzione dell’assolvimento dei relativi obblighi, sulla base della disciplina dettata dai decreti legislativi di riferimento. Il remittente formulava il quesito proponendo due possibili e alternative letture della questione. Chiedeva cioè alla Plenaria di decidere se il procedimento di verifica attribuito al GSE, sulla base dei relativi decreti ministeriali d’attuazione, configurasse l’esplicarsi di un potere amministrativo che si conclude con un provvedimento autoritativo di accertamento, ovvero una mera procedura di controllo relativa a un obbligo previsto dalla legge, correlato alla finalità pubblicistica di favorire la diffusione di energia da fonti non rinnovabili. Con riferimento alla prima delle tesi prospettate, il remittente dava rilievo alla finalità perseguita dalla disciplina in argomento, posta a tutela dell’interesse pubblico al corretto adempimento dell’obbligo derivante dall’art. 11 d.lgs. n. 79/1999, preordinato al perseguimento di preminenti interessi pubblici anche di portata sovranazionale, in considerazione degli obiettivi europei e internazionali in materia di produzione energetica da fonti rinnovabili. Riteneva perciò astrattamente configurabile una posizione di interesse legittimo in capo ai destinatari, con conseguente assoggettamento alle norme relative alle azioni d’annullamento e ai rispettivi termini di decadenza. Viceversa, sottolineando il fatto che si tratterebbe di obblighi dai contenuti ben delimitati dalla legge che, mediante esclusioni, individua la base di calcolo dell’energia da fonti non rinnovabili prodotta o importata ai fini della quota d’obbligo di energia da fonti rinnovabili, alla [continua ..]
Alla luce della ricostruzione operata dal Collegio remittente, che ha circoscritto in modo puntuale i contorni delle due interpretazioni che riteneva potessero porsi a confronto, la formazione plenaria del Consiglio di Stato ha preso le mosse dalla ricognizione della natura giuridica del Gestore dei servizi energetici, nonché della funzione dallo stesso svolta. Il giudicante ha quindi riconosciuto il Gestore dei servizi elettrici come persona giuridica di diritto privato, costituita nelle forme della società per azioni, rimarcando però la partecipazione totalitaria del Ministero dell’Economia e delle Finanze al capitale dell’ente, integralmente riservato alla mano pubblica, nonché la sottoposizione al potere di controllo sulla gestione finanziaria da parte della Corte dei Conti [13]. Partendo dal richiamo dell’art. 4 dello Statuto sociale allegato all’atto costitutivo del GSE, da cui ha desunto che la società ha per oggetto l’esercizio delle funzioni di natura pubblicistica nel settore elettrico e, in particolare, attività di carattere regolamentare, di verifica e certificazione relativa al settore dell’energia elettrica, si è soffermato quindi nell’analisi delle correlate attività in materia di promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità [14]. Con specifico riferimento a tali funzioni, ha evidenziato la rilevanza pubblica e amministrativa del controllo operato sull’attività economica privata, nonché la preminenza degli interessi collettivi protetti, collegati alla graduale riduzione della componente di anidride carbonica presente nell’atmosfera e corrispondenti “al superiore interesse a verificarne la concreta osservanza da parte dello Stato”, inteso “sia come Stato-persona, in rapporto ai vincoli internazionali nascenti dalla firma del c.d. protocollo di Kyoto, sia come Stato-comunità in rappresentanza dell’interesse collettivo al miglioramento della qualità ambientale”. Le ha quindi inquadrate nell’alveo dei controlli che i pubblici poteri esercitano sull’attività economica privata, per assicurare che la stessa persegua gli specifici fini sociali previsti dalla legge, a norma dell’ultimo comma dell’art. 41 della Costituzione [15], ritenendo [continua ..]
L’approdo a cui è giunta l’Adunanza plenaria non si può compiutamente misurare se non partendo dall’impostazione che il Giudice remittente aveva dato al quesito sollevato alla sua attenzione. Il giudice a quo aveva infatti posto una distinzione piuttosto rigida tra le due opzioni ritenute validamente sostenibili alla luce del quadro normativo di riferimento. Ciò “appaiando” la funzione svolta dal GSE in due possibili categorie-contenitori, parametrate al tentativo di correlare la natura dell’atto ai dati provenienti dal quadro normativo, nonché alla rilevanza (e sostanza) degli interessi sottesi. L’impressione che, invece, si ricava analizzando la pronuncia in commento è che la costruzione della sua motivazione abbia preso avvio da una preminente considerazione delle conseguenze che sarebbero scaturite dalla scelta di una delle due alternative messe in campo, come se la possibilità di una scelta “netta” fosse stata scartata a fronte di effetti parimenti indesiderati che sarebbero derivati nei rispettivi casi. Alimenta questo sospetto anzitutto la sensazione che l’estensore abbia incontrato una certa difficoltà nel definire esattamente i contorni giuridici dell’affermata natura duale, difficoltà che si è trasformata in contorsionismo quando il giudicante ha impostato certe questioni, rovesciandone la prospettiva, passando dal “dover essere” al “non poter essere diversamente”, quasi procedesse a una dimostrazione per assurdo. Tra i passaggi sicuramente significativi, in questo senso, vi sono quelli ove si afferma, come già riportato, che la natura duale degli atti di accertamento del GSE “risulta pienamente coerente con la circostanza secondo cui la contestazione (dell’atto di accertamento positivo) non riguarda formalmente un atto dell’amministrazione ma sostanzialmente la determinazione dell’esatta portata dell’adempimento di un debito rispetto al contenuto specifico dell’obbligazione ex lege nonché all’eventuale esistenza di una situazione creditoria riveniente da un adempimento eccedentario rispetto al dovuto”. Argomento, questo, che viene però parzialmente contraddetto, ove si afferma che in caso di accertamento positivo non sussiste “alcuna determinazione sfavorevole correlata” e, conseguentemente “la [continua ..]
Tanto nell’ordinanza di rimessione, quanto nella pronuncia dell’Adunanza plenaria, sono state chiamate in discussione categorie fondamentali quali quelle degli atti paritetici e degli atti provvedimentali, quelle dell’attività vincolata e della discrezionalità tecnica, temi che si intersecano nella nozione di accertamento, naturalmente collocata al crocevia tra epistemologia e ontologia. La teoria generale dell’accertamento, del resto, è nata proprio sul crinale della distinzione fra mero atto e atto dichiarativo, concetti che hanno innervato la costruzione della teoria dell’atto amministrativo a partire da quella del negozio giuridico di diritto privato, intercettando sotto diversi profili dogmatici e operativi temi più ampi: la distinzione tra verità e certezza [19], cognizione e valutazione, quindi tra efficacia dichiarativa e costitutiva, tra attività vincolata e discrezionale, nonché tra discrezionalità amministrativa e discrezionalità tecnica. Il dibattito sul tema della produzione di certezze da parte dell’amministrazione pubblica si è sviluppato attorno allo studio delle attività amministrative “non negoziali”, seguendo un’analisi incentrata principalmente sul problema dell’efficacia degli atti d’accertamento, piuttosto che sulla relativa struttura. Come noto, i primi passi sono stati mossi da Ranelletti, che considerava il potere d’accertamento come attività di mera verifica della sussistenza degli “elementi dell’esistenza del diritto”, e perciò lo riconduceva alla categoria di atti “di pura esecuzione”, aventi cioè il fine di accertare unicamente “l’esistenza delle condizioni determinate dalla legge” [20]. Dalla stessa impostazione hanno preso spunto anche gli studi di Santi Romano in tema di certificazione, che però distingueva gli “atti dichiarativi”, che constano di una dichiarazione di volontà, ossia che producono la costituzione, modificazione o estinzione di un diritto, dagli atti “dichiarativi puri”, ossia atti non volontari attraverso cui la pubblica amministrazione “certifica uno stato di cose o diritti” [21]. Tale ultima categoria – per cui ricorreva anche all’espressione “meri atti” – veniva [continua ..]
Una chance per giustificare la contemporanea presenza delle due posizioni giuridiche soggettive era forse offerta da un aggancio alla tesi della ricorrente, che aveva prospettato l’ipotesi che si trattasse di attività vincolata. Ma, come già evidenziato, l’Adunanza plenaria ha escluso la possibilità di accedere all’argomentazione difensiva, che aveva postulato il carattere vincolato della funzione di verifica posta in capo al GSE, ritenendo di dover escludere che si tratti in ogni caso di “mero accertamento tecnico”, ponendo anzitutto il dubbio che la funzione rimessa in capo al Gestore possa ritenersi scevra da profili valutativi, ancorché di ordine tecnico. Con ciò, però, il giudicante ha notevolmente complicato – per ragioni tutt’altro che esplicitate – il proprio percorso motivazionale. Quasi paradossalmente, ancora una volta, l’estensore ha voluto richiamarsi all’indirizzo della prevalente giurisprudenza secondo cui, di fronte a un’attività vincolata non sarebbe configurabile necessariamente un diritto soggettivo, bensì il privato potrà essere titolare di un diritto soggettivo oppure di un interesse legittimo, a seconda che la norma attributiva del potere sia rivolta a tutelare in via primaria e diretta l’interesse privato o l’interesse pubblico [51]. Rilevante per distinguere le due situazioni sarebbe perciò il riferimento “alla finalità perseguita dalla norma alla quale l’atto si collega e alla conseguente posizione di autorità attribuita all’amministrazione (o al soggetto comunque esercente una pubblica funzione)”, poiché se risulta che l’ordinamento abbia inteso tutelare in via primaria l’interesse pubblico e, quindi, l’amministrazione ha agito come autorità, “alle contrapposte posizioni sostanziali dei privati non può che essere riconosciuta una protezione mediata che, da un lato, passa necessariamente attraverso la potestà provvedimentale dell’amministrazione e, dall’altro, si traduce nella possibilità di promuovere, davanti al giudice amministrativo, il controllo sulla legittimità dell’atto” [52]. Il riferimento a questa costruzione sarebbe interessante, se non fosse per quel richiamo alla norma attributiva del potere che, nel caso di specie, [continua ..]